24 luglio 1848: nelle verdi colline di Custoza un tamburino sardo, un ragazzo di poco più di quattordici anni, piccolo, dal viso bruno olivastro e con due occhietti neri e profondi si trova assieme ad una sessantina di soldati di un reggimento di fanteria dell'esercito piemontese, mandati su un'altura di Custoza ad occupare una casa abbandonata, quando improvvisamente vengono assaliti da due compagnie di soldati austriaci costringendoli a rifugiarsi nella casa stessa. Sbarrate precipitosamente le porte, i nostri uomini si dirigono verso le finestre imbracciando i fucili, dando così inizio ad una lunga ed estenuante battaglia che provoca numerosi morti su entrambi i fronti. Vistosi in grave difficoltà, il capitano del reggimento, un vecchio alto, secco e austero, con i capelli e i baffi bianchi, chiama in disparte il piccolo tamburino, facendogli cenno di seguirlo al piano superiore: nella nuda soffitta il capitano sta scrivendo con una matita sopra un foglio; lo ripiega, e fissando negli occhi il ragazzo gli comunica che sta per affidargli un'importante missione: a Villafranca, appena scesa la collina, sono appostati i carabinieri italiani: il ragazzo ha l'ordine di raggiungerli e consegnare il messaggio al primo ufficiale che trova sul suo cammino. E così è. Si cala con una corda dalla finestra che si trova sul retro della casa, e comincia a correre il più velocemente possibile; nel frattempo, il capitano, con lo sguardo, segue tutti i suoi movimenti; gli austriaci si accorgono di lui ed iniziano a far fuoco su quella piccola figura che fugge verso i campi: viene colpito ma si rialza, riprende la corsa ma zoppica, rallenta per poi ricominciare a correre ancora più veloce, finché non scompare dietro una siepe e il capitano lo perde di vista. Al pian terreno, intanto, il numero dei morti va aumentando, ma egli non ha alcuna intenzione di arrendersi.
Il tempo passa, e quando ormai hanno perso ogni speranza, all'improvviso, in mezzo all'enorme polverone, scorgono i berretti a due punte dei carabinieri: i rinforzi sono finalmente giunti. Il piccolo tamburino ce l'ha fatta. La giornata termina con la vittoria dei nostri, ma due giorni dopo gli italiani sono costretti a ritirarsi sul Mincio, a causa dell'elevato numero di soldati austriaci presenti. Il capitano, benché ferito, una volta giunto a Goito desidera sincerarsi delle condizioni di salute di un suo luogotenente, anch'egli ferito e trasportato da un'ambulanza in un ospedale da campo: gli viene indicata una chiesa e una volta giuntovi si guarda attorno cercando con lo sguardo il suo ufficiale in mezzo a tutti quegli uomini adagiati sui materassi posti sul pavimento della chiesa. E' in quel momento che si sente chiamare da una voce fioca: è il piccolo tamburino, disteso sopra un letto a cavalletti, coperto fino al petto da una tenda da finestra, pallido e smagrito, che inizia il racconto della sua impresa, tra mille difficoltà e sotto il fuoco nemico, con l'unico pensiero di assolvere all'incarico che gli era stato affidato: l'uomo, vedendo il ragazzo così debole è indotto a pensare che abbia perso molto sangue, ma distoglie inorridito lo sguardo quando vede che al giovane è stata amputata una gamba, e il troncone rimasto è fasciato da panni insanguinati. Giunge in quell'attimo il medico che, dolente, comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata in modo così assurdo. E' così che l'uomo, quel rozzo soldato che non aveva mai pronunciato una parola mite verso un suo inferiore, alza la mano alla fronte e dice: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ". Poi si getta con le braccia aperte sul tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore.
Il tempo passa, e quando ormai hanno perso ogni speranza, all'improvviso, in mezzo all'enorme polverone, scorgono i berretti a due punte dei carabinieri: i rinforzi sono finalmente giunti. Il piccolo tamburino ce l'ha fatta. La giornata termina con la vittoria dei nostri, ma due giorni dopo gli italiani sono costretti a ritirarsi sul Mincio, a causa dell'elevato numero di soldati austriaci presenti. Il capitano, benché ferito, una volta giunto a Goito desidera sincerarsi delle condizioni di salute di un suo luogotenente, anch'egli ferito e trasportato da un'ambulanza in un ospedale da campo: gli viene indicata una chiesa e una volta giuntovi si guarda attorno cercando con lo sguardo il suo ufficiale in mezzo a tutti quegli uomini adagiati sui materassi posti sul pavimento della chiesa. E' in quel momento che si sente chiamare da una voce fioca: è il piccolo tamburino, disteso sopra un letto a cavalletti, coperto fino al petto da una tenda da finestra, pallido e smagrito, che inizia il racconto della sua impresa, tra mille difficoltà e sotto il fuoco nemico, con l'unico pensiero di assolvere all'incarico che gli era stato affidato: l'uomo, vedendo il ragazzo così debole è indotto a pensare che abbia perso molto sangue, ma distoglie inorridito lo sguardo quando vede che al giovane è stata amputata una gamba, e il troncone rimasto è fasciato da panni insanguinati. Giunge in quell'attimo il medico che, dolente, comunica al capitano come la gamba si sarebbe potuta salvare, se non fosse stata sforzata in modo così assurdo. E' così che l'uomo, quel rozzo soldato che non aveva mai pronunciato una parola mite verso un suo inferiore, alza la mano alla fronte e dice: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe ". Poi si getta con le braccia aperte sul tamburino, e lo bacia tre volte sul cuore.
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